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The Danish Girl – Tom Hooper [2015]

27 febbraio 2016

Jeg elsker mig

Inizio XXsec. Un pittore è felicemente sposato con una splendida moglie. Per un caso deve indossare per qualche minuto dei vestiti da donna, e da lì parte l’odissea che lo porterà a tentare di essere il primo trans della storia.

Sin dalla trama si può comprendere come al regista Tom Hooper piaccia giocare facile. Sposare di questi tempi certi argomenti significa sapere di ricevere l’automatico plauso di tutta la comunità LGBT nonché l’incontrastabile apprezzamento di buona parte di una società che delle mode sociali fa uno stile di vita.

Non che ci sia nulla di male, ovviamente, nel tema e nel lodarlo, ma c’è modo e modo di farlo e non sempre deve essere ammirato.

Si prenda l’esempio di Una Nuova Amica di François Ozon del 2014: stessa tematica, gran film.

Nel suo nuovo lavoro Hooper ricalca il precedente ozoniano, ma invece che intraprendere un percorso d’indagine psicologica in grado di mettere lo spettatore nei dubitanti panni del protagonista e dunque di suscitare autentiche riflessioni, forza l’inerme pubblico in sala a una obbligata empatia con il poverello di turno. In questo caso è un trans, ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altro tema sociale, la formula è sempre quella: faccia sofferente filmata in primo piano, qualche fuga per rivendicare la propria vera natura, musiche strappalacrime a incorniciare il tutto e un finale da romanzo rosa di bassa caratura [non parlo della trama dato che è una storia vera rimestata da un romanzo del 2000, ma della scena finale con il foulard. Terribile.].

Tutto questo è ovvio che stringe il cuore dei meno propensi a un’analisi critica della vicenda e del film. E infatti le lodi giungono quasi da ogni parte. Mica si può rischiare di passare per omofobi. Sia mai che un giudizio avverso al perbenismo possa essere frainteso.

E io invece me ne frego e lo dico chiaro e tondo: questo film è una colossale presa in giro!

Le due ore di film non ci mostrano altro che un protagonista apparentemente dolce e delicato ma nei fatti arrogante ed egoista, tanto da infischiarsene bellamente della sua addolorata moglie che da un giorno all’altro non ha più potuto incontrare suo marito. Lui/lei vuole quello che vuole e non gli interessa minimamente se così facendo provoca dolore alle persone che gli stanno accanto e rovina vite altrui: lui vuole e quindi deve.

Come se altre persone non avessero altre necessità.

Insomma: niente psicologia in questo film, ma una subdola forzatura a dover amare questo personaggio a tutti i costi. Se non lo ami sei un mostro.

E non si può nemmeno rilevare qualche dialogo degno d’interesse. Tutto si risolve nella celebrazione di costui, vittima cosmica degli eventi, come quando afferma che lui è uno sbaglio della natura: una donna con sembianze maschili. È per questo che farsi cambiare chirurgicamente i genitali metterebbe tutto a posto ! Tralasciando il fatto che la mente è una cosa, mentre ovaie, proporzioni fisiche e ormoni sono altro ma fanno sempre parte di quel corpo. Tant’è che nella vita reale Einar Wegener / Lili Elbe subì cinque operazioni di cui una per innesto d’utero, mentre nel film tutto è focalizzato su pene e vagina.

Superficialità di questo tipo ricorrono per tutta la durata del film poiché non è l’aderenza alla realtà che interessa al regista bensì ciò che conta è strappare lacrime dai cuori più perbenisti.

A supportare ciò che affermo c’è la questione dei dipinti: lui, Einar Wegener, era un apprezzato pittore paesaggista di stampo ancora tardottocentesco. Una specie di Fontanesi dello Jutland [ma ci sono anche dipinti ben diversi sui quali il film tace, poiché troppo poco romantici per far presa sullo spettatore medio]. Ebbene, non è proprio dalla più o meno inconscia creazione [artistica] di un uomo che possiamo cogliere aspetti della sua personalità? Non è dall’analisi di quel distillato d’io che è un dipinto che possiamo provare a cogliere aspetti inconfessati dell’individuo? Per Hooper no. Per Hooper la produzione pittorica non è che una informazione biografica di poco conto. Tranne quando il/la protagonista diventa modello/a per la moglie. A quel punto tutto diventa chiaro e i dipinti rivelano tutto. Se lo dice lui…

L’unica cosa che davvero si salva del film sono gli ambienti e i costumi. Qualche sparuto paesaggio naturale iniziale e uno scorcio urbano cittadino a metà film sono degni di nota, così come gli interni art nouveau di Parigi. Si salva anche qualche inquadratura. La fotografia è buona e meno male, altrimenti sarebbe stata noia pura.

Le interpretazioni iperlodate degli attori lasciano un po’ l’amaro in bocca. Bravi tutti, ma Eddie Redmayne alla lunga scade un po’ nella maniera e seppur bravissimo irrita un po’. Una menzione speciale va invece a Matthias Schoenaerts nei panni del mercante d’arte amico d’infanzia del protagonista, ma soprattutto in quelli del sosia di Vladimir Putin.

The Danish Girl è un film mediocre, che non può essere lodato se non dal grande pubblico contemporaneo il che, appunto, non è una buona cosa.

 

4

Danilo Cardone

Revenant, Redivivo – Alejandro González Iñárritu [2016]

18 gennaio 2016

Mangia, prega, muori.

Revenant

Quando si sviluppa una certa avversione nei confronti di tutto il sistema cinematografico e ciò che attorno a esso gira [pubblicità che contano più del film stesso, fatua mitizzazione degli attori, riconoscimenti validi solo per i molti ultras pseudo-cinefili, etc..] si ha il vantaggio di finire per interessarsi solo più del Cinema infischiandosene bellamente delle vacuità sopracitate.

Questo comporta che quando si entra in una sala cinematografica, che sia gremita come una stalla o che sia vuota e silente come, ahinoi, la mente di molti spettatori, succede che il film inizia e si ha lo straordinario privilegio di assistere a uno spettacolo in grado di offrire appieno le sue potenzialità. Avendo ridotto al minimo le informazioni pregresse [nome del regista, degli attori principali, locandina] lo schermo cinematografico non diventa una semplice scatola dove sollevato il coperchio dei titoli di testa ri-troveremo o meno ciò che già avevamo in mente con conseguente finto appagamento e autocongratulazione per aver immaginato ciò che le pubblicità ci volevano esattamente far immaginare, oppure con delusione [nella nostra idiozia che si è fatta trascinare dalle pubblicità ci aspettavamo talmente tanto che poi ne siamo rimasti ovviamente delusi]. Al contrario, alla proiezione delle prime immagini lo schermo diventa tela dove il regista-pittore, più o meno bravo che sia, dipinge sotto i nostri occhi uno spettacolo, qualcosa in grado di suscitare in noi delle emozioni estremamente pure, autentiche perché inaspettate.

Ebbene, The Revenant non dovrebbe essere visto altrimenti.

Revenant

La tragica bellezza delle immagini filmate da Iñárritu è qualcosa in grado di mozzare il fiato. Paesaggi e paesaggi e paesaggi e boschi e fiumi e boschi e alberi e neve e altri alberi e vento e acqua e ancora neve. A spalancare bene le narici si potrebbe quasi avere l’illusione [non fossimo nella suddetta sala-stalla] di poter sentire il profumo di quegli alberi scossi da un gelido vento che ne fa ondeggiare le altissime cime. Di qua e di là, di qua e di là, mentre noi, con un effetto smaterializzante simile a quello che descrissero nel 1810 coloro che ebbero modo di vedere per primi il monaco in riva al mare dipinto da Caspar David Friedrich, muovendo i piedi nel nostro buio posto in sala potremmo quasi giurare d’aver sentito scricchiolare la neve sotto le nostre scarpe.

Non si deve avere in mente altro che ciò che si sta guardando. Non si deve avere in mente che l’attore principale è oggetto di una venerazione da bar che negli ultimi mesi impazza su internet. L’attore è attore, e in scena deve essere altro da sé. E se vi lamentate di quello che ho scritto, vi perdete il gusto di un film.

E mentre i minuti scorrono e la trama si trita su sé stessa cercando di smarcarsi da illustri predecessori, ma fallendo nell’impresa, Ryuichi Sakamoto e Alva Noto, coppia musicale affiatata ormai da anni, celebrano la sacra immagine con i sacri suoni che ne rendono giustizia. Strumenti che richiamano luoghi che non sono quelli che vediamo ma che con i loro ancestrali suoni rappresentano il respiro di una natura che semplicemente se ne frega di ciò che fanno gli uomini, miseri esseri che distruggono loro stessi e ciò che li circonda.

Il regista, lontano dagli intrecci a livelli di Babel, rispolvera quel drammatico lirismo che è sempre stato costante del suo cinema e lo sparge come impregnante sul più cruento modo che immagina per rappresentare la sopravvivenza, la morte, la ferocia degli assassinii, e tutte queste splendide cose che nemmeno il bel protagonista che pare buono e giusto evita di fare. E quindi cavalli che vengono squartati in pancia per trasformarli in comodi caldi ripari per la notte, indiani che lanciano frecce nei teneri toraci degli americani che sparano pallottole che perforano crani di altri indiani inferociti perché i francesi, che le pelli degli orsi le fanno cacciare agli americani, avevano rapito una giovane e bella indigena il quale padre è assassino tanto quanto tutti gli altri.

Revenant

Però Iñárritu non è un mediocre regista di Napoli, anche se pure lui ha vinto la stessa statuetta dorata, e quindi la fotografia commovente è sostenuta da una regia altrettanto valida che sfodera 360° come se fossero congiunzioni e ci delizia con piani sequenza da applausi perché se di esercizio di stile si parla sempre in questi casi bisogna anche notare che sono estremamente efficaci per buttare con un calcio nel sedere lo spettatore nel bel mezzo della mischia a mangiare polvere e neve mentre al suo fianco gli uomini cadono morti come mele marce.

Ve lo assicuro, alla fine tutti gli spettatori usciranno vivi dalla sala.

Ora la domanda è: tutto questo basta?

Di fronte a tale incanto visivo e sonoro possiamo affermare con certezza che ogni battuta della sceneggiatura per le nostre orecchie ha lo stesso effetto di un cotton fioc finito troppo in profondità. Così come il rapporto dal patetismo fallito tra il protagonista redivivo e il suo figlio tanto amato. In fondo, a noi, che amiamo i bei volti hollywoodiani, che ci frega di salvare quel monoespressivo mezzosangue?

Meglio concentrarci su Leonardo Di Caprio. Lui si che merita di sopravvivere. E infatti lo fa. Più o meno. Dopo essere stato spuntino di un orso e vittima un po’ di tutti quelli che ha incontrato. Insomma, un grande attore ha sempre dimostrato di esserlo, sin dai tempi di Buon Compleanno Mr. Grape. Anche qua è molto convincente, il suo volto è sofferto e la macchina da presa gli sta talmente incollata al volto da appannarsi quando respira [chapeau a Iñárritu e al suo memento cinema].

Ma è a Tom Hardy che bisogna stringere la mano per la sua interpretazione. Il poliedrico attore britannico non aveva bisogno di conferme, eppure lui ci tiene a rimarcare di essere uno dei più bravi in circolazione. Persino più dell’osannato protagonista. D’altronde, è il protagonista…

Potremmo stare qui ore a cercare citazioni e richiami con altri film. Qualcuno ci vede del Malick. Malick? Chi è Malick?

Iñárritu non filosofeggia, mostra. Anche l’invisibile agli occhi, il vento, il freddo. È tutto in scena. Le inquadrature degli alberi sono funzionali, e se non lo sono per la storia lo sono per la gioia di farsi trasportare a soffrire con il protagonista. Due ore e mezza di film che tanti spettatori fuori dalla sala hanno trovato interminabili, ma che altri hanno respirato come ossigeno cinematografico.

Revenant

The Revenant è dunque un gran bel film che racconta una storia che non appassionerebbe nemmeno più un bambino, per quante volte è stata portata sul grande schermo. Però alla fine ci appassiona perché sono tutti bravi, regista, attori, musicisti e madre natura.

8

Danilo Cardone

Under The Skin – Jonathan Glazer [2013]

2 settembre 2014

Di terra, di aria

Under The Skin

Una ragazza carica uomini a bordo del suo furgone. Chi è lei? Perché fa ciò? Qual è il suo scopo?

Jonathan Glazer, regista di soli due lungometraggi, di cui uno dimenticabilissimo come Birth – Io Sono Sean, ma ben più avvezzo al piccolo schermo plasmando immagini per storici videoclip e arguti sponsor, torna nel 2013 a dirigere un film cinematografico. E lo fa prendendo spunto dall’omonimo romanzo scritto da Michel Faber all’alba del millennio in corso.

Aldilà della storia, che riveste un’importanza limitata per Glazer, è interessante notare come sia stato messo in scena il tutto, come le immagini si susseguano, come s’integrino con le musiche [efficacissime di Mica Levi] e con gli effetti sonori. Tutto è stato oggetto di attenzione maniacale tanto che la definizione di “opera cinematografica” non solo è corretta ma calza straordinariamente bene in quanto è proprio di un insieme complesso e inscindibile di elementi ciò di cui stiamo parlando. Lo stesso Glazer ha rimarcato come lo spettatore sia condotto verso una percezione sensoriale piuttosto che mentale. Recepire immagini, carpire suoni, lasciarsi trascinare nelle atmosfere naturalmente sinistre degli spazi rappresentati. E se alcuni protagonisti hanno un accento scozzese troppo marcato e noi non riusciamo a comprendere cosa abbiano detto, poco importa, nemmeno la protagonista capisce sempre ciò che le viene detto.

Under The Skin

Questo è coinvolgimento per lo spettatore, non un film dove tutto è perfetto e ci appare come palesemente finto. Gli stessi attori sono esordienti e probabilmente non rimarranno che meteore cinematografiche, rapidissime comparse che svaniscono così come fanno durante il film. Tutto pare spontaneo, reale. Persino la timidezza di alcuni di loro e il loro modo di portare i vestiti stupisce. Non c’è un andamento o un fisico da fotomodelli a sostenerli. Sono mezzi tipi, non troppo caratterizzati in un senso né in un altro, perché sono la normalità che deve scontrarsi con l’ingestibile imprevisto costituito dall’ammaliante femme fatale, quella chimera che pare alla portata di tutti, inspiegabilmente disponibile con noi, uomini medi, come in un sogno che non abbiamo il coraggio di scacciare per non rischiare di pentircene per tutta la vita.

E lei, Scarlett Johansson, bella e glaciale, imperturbabile nel suo lavoro, è il miraggio, è l’esca, è l’inganno oltre ogni immaginazione, è l’infallibile demone che spalanca le porte dell’inferno ai nostri sorrisi inebetiti, ai nostri polmoni, più anelanti al respiro altrui che all’ossigeno vitale.

S’annega così l’essere uomo, e annega altrettanto la stessa donna del mistero in un repentino nostalgico divenire che la sradica dal suo terreno fertile per cacciarla, Eva novella, nel Purgatorio terrestre fatto di finte passioni e finti piaceri.

Under The Skin

E nella solitudine immota della protagonista s’articola il germe dell’esistenzialismo, non indagato a dovere ma sufficiente per sfiorare [ahinoi, solo sfiorare] le corde della malinconia, della rarefazione della condizione umana. Paesaggi maestosi e ricorrentemente siderali, attraenti ma inospitali. Fuori dall’urbe torniamo a essere parte del tutto ma soprattutto ci rendiamo conto d’essere terrifico nulla.

Tutto ciò narrato in sincope di un montaggio bizzoso ma intelligente che mostra e poi cela e poi mostra altro e poi continua ancora per altre vie. Eppure tutto ciò che vive nel tempo filmico acquisisce un senso o perlomeno la parvenza di poterlo cogliere. E la straordinaria bellezza dell’immagine reclama a gran voce la distinzione tra quest’opera e altre opere, avvolgendo lo spettatore in un turbinio di luci, ombre e colori che affascinano senza appello e si completano viscosamente con un apparato sonoro che sfiora il prodigio. Musiche dagli accenti ligetiani e rumori ambientali d’una puntualità strabiliante. C’è da irritarsi oltremodo per le luci di sicurezza della sala cinematografica che disturbano la nostra immersione filmica.

Ma György Ligeti non è l’unico aggancio stellare con Stanley Kubrick. 2001: Odissea Nello Spazio è infatti uno dei certi riferimenti per l’opera di Glazer sin dall’incipit che, prima della vestizione silhouettata tra bianco e nero, propone un sunto del capolavoro kubrickiano tra spazio indefinito, raggi luminosi e metamorfico occhio che non può non rimandare a Hal-9000.

Under The Skin

Ed è già dalla scena della vestizione appena citata che emerge l’altro riferimento filmico, ancora più presente nell’arco di tutta l’opera. Quel contrasto nel candido spazio dell’astrazione fisica riporta la mente a Electroma, opera del duo musicale Daft Punk del 2006 narrante l’impossibile parabola pseudo-emotiva di due robot che inseguono senza speranza alcuna il sogno [cibernetico, quanto reale e quanto mera emulazione?] di poter diventare esseri umani. In fondo lo spunto non è troppo differente dalla storia ideata da Faber e le analogie sono molte, compresa la scena della figura che brucia e cammina e una musica la sostiene in questo sua incedere di distruzione. Non c’è il lirismo prolungato di Jackson C. Frank che con la sua dilaniante voce tremula intona l’altrimenti dimenticata Dialogue, ma anche Glazer sa infondere una dose di [distaccata] poeticità al tutto.

Malgrado le lodi per un’opera di fascino oggettivo, il regista, forse perché più a suo agio nei tempi brevi della televisione, diluisce immagini di luoghi altri e suoni evocativi con una dose non trascurabile di noia e ripetitività che depotenziano il complesso, anche in virtù del fatto che il tema portante dell’opera non è mai penetrato a fondo come lo spettatore desidererebbe ardentemente. In altre parole: nella metà del tempo, l’efficacia sarebbe stata doppia.

Under The Skin

Under The Skin è però opera di preziosa evocatività, a tratti troppo comprensibile e in altri troppo poco. Scarlett Johansson domina la scena per tutta la durata del film e in tutte le sue forme, e questo non dispiace. Lo spettatore più svogliato disprezzerà dunque questo film fino alla nausea, quello cinematograficamente più sensibile invece troverà una controllata ma costante intensa soddisfazione.

8,5

Danilo Cardone

Lei – Spike Jonze [2013]

17 marzo 2014

Sfera

Lei

Un uomo s’innamora della donna creata da un software.

Il tema non è nuovo, non c’è ombra di dubbio. Malgrado ciò molti spunti sono in grado di calamitare lo spettatore, soprattutto per la prima parte del lungometraggio.

Il perché è semplice da spiegare: la storia è ambientata in un futuro che è già il nostro presente lievemente potenziato a livello tecnologico. La moda non è dissimile dalla nostra, le passioni nemmeno. Tutto è come nel nostro presente, eppure c’è qualcosa in più a livello tecnologico.

Quel qualcosa è la simulazione della vita.

Un potentissimo programma per computer genera un essere cibernetico che si palesa esclusivamente attraverso strumenti informatici, come la produzione di brani musicali, l’invio e la lettura di email e sopratutto la voce.

La voce.

Tutto passa attraverso di essa. Una voce amica, una voce confidente. Una voce che sa accarezzare la nostra anima e che al contempo sa ricevere i medesimi stimoli. Tutto è fittizio ma tutto pare reale.

Cosa è dunque la realtà? E dove inizia la nostra immaginazione? Realtà e immaginazione possono fondersi? Noi dobbiamo permettere che ciò avvenga?

Quesiti esistenziali già indagati decine e decine di volte al cinema [si pensi al poetico Ferro 3, La Casa Vuota di Kim Ki-Duk del 2004] che sfociano nell’asetticità della coscienza dell’uomo moderno.

Tema già analizzato nello splendido Shame di Steve McQueen, l’uomo odierno è schiavo dell’illimitatezza apparente delle sue possibilità. Tutto è a nostra disposizione, attraverso un semplice clic del nostro mouse o un semplice comando vocale, ma tutto ciò può appagare il nostro animo? La freddezza delle macchine, delle nostre manie a-personali e s-personalizzanti, può davvero fornire il calore che l’uomo necessita per poter sopravvivere? Oppure questa grande illusione non fa che introiettare la nostra esistenza in un circuito chiuso dal quale non esiste via di uscita?

Lei

La voce è un esempio straordinariamente calzante di questo progresso fuori controllo che ogni giorno sostituisce sempre l’uomo nella vita dell’uomo stesso.

La voce è vibrazione. Una persona parla e, aldilà del messaggio contenuto nella comunicazione, il ricevente viene investito da tutte quelle componenti paratestuali che comprendono anche la vibrazione fonatoria. Ebbene, questa vibrazione non è altro che l’energia che un uomo propaga verso un altro uomo. L’asettica voce di un computer, per quanto mirabilmente concepita a immagine e somiglianza di quella umana, può arrivare a tanto?

L’inganno è perfetto e l’uomo, pervaso da debolezze e insicurezze, non attende altro che lasciarsi cullare da ciò che pare perfetto. L’inganno è dunque il rifugio migliore per accrescere l’autostima, per colmare tutte quelle imperfezioni che sono proprie dell’essere umano e che generano così tanti dissapori tra individui che entrano in contatto.

Ma l’amore può essere ricreato da un software?

Il dato è certo: in una società sempre più improntata all’apparire si moltiplicano i complessi d’inferiorità. Ci si vergona di non essere, di non avere a sufficienza. E si patisce nel non poterlo confessare, come se fosse un peccato mortale essere in difetto in una società che prolifica sugli inutili difetti degli individui che la compongono.

L’uomo non vuole che essere ascoltato.

Così come un foglio bianco ascolta i nostri sfoghi, il sistema operativo al centro delle vicende del film ascolta gli sfoghi del protagonista e inoltre fornisce tutte le risposte di cui il protagonista ha bisogno. È come avere una coscienza esterna che oltre a indicarci la strada più opportuna da percorrere, ci motiva persino nel farlo.

A tutto ciò bisogna aggiungere la componente emotiva, sentimentale.

Lei

Il partner ideale, quello che non può esistere in quanto l’uomo è imperfetto per definizione, può essere ricreato da un software evoluto che non solo si pone come super-potente ma che addirittura ci studia e si modella esattamente sulla base di ciò che noi siamo e di ciò di cui abbiamo bisogno.

L’uomo non ha dunque più bisogno dell’uomo.

Niente più contatto umano, niente più procreazione, niente di niente: la fine dell’essere umano.

A tutto ciò, che si sviluppa nella prima parte del film, si va a sommare una seconda parte del film nettamente inferiore, meno espressiva, meno coinvolgente, meno ragionata. Insomma, se nella prima metà all’incirca abbiamo una riflessione sull’uomo e sulla società nella quale egli vive, nella seconda il film scade nella banalità di una classica storia d’amore come potrebbe esistere tra due esseri umani. Viene a mancare la distinzione tra uomo e macchina e viene a mancare dunque l’elemento interessante dell’opera. Il ritmo cala, la splendida sceneggiatura messa in atto sino ad allora si cosparge di luoghi comuni, di frasi fatte, sino a un finale ignavo, che riflette l’anima di un regista incapace di affondare il colpo in un senso o nell’altro.

La tecnica registica non è eccelsa, come non lo è mai stata con il regista Spike Jonze, molto più a suo agio nei videoclip musicali che nei lungometraggi, eppure qualcosa di buono traspare più e più volte con una veemenza che contrasta davvero tra momenti visivamente eccitanti ed altri fastidiosamente incompleti. La fotografia, per esempio, è espressionistica al punto giusto, ben dosata nei colori e nelle prospettive, ma il montaggio! Con che logica è stato eseguito? Non di certo quella di un’indagine psicologica. Indagine psicologica che invece è perfettamente resa da una macchina da presa quasi sempre incollata al viso dell’attore protagonista. Non c’è la staticità dei primi piani di Bergman, tanto per citare un regista che sapeva come si costruivano, bensì c’è l’efficacia del restituire l’idea di una webcam, che sia di un computer o che sia di uno smartphone, che, di fatto, non dista dal viso più di una trentina di centimetri.

Lei

L’intreccio sentimentale scade davvero nel banale dopo la prima ora di film, ma non si perde una certa qualità sensoriale che si presenta e latita a seconda del momento inscenato. Molto spesso, infatti, il protagonista indossa un auricolare per comunicare con la sua amante virtuale. Ebbene, in questi casi, i casi nei quali il protagonista parla con lei, ovvero con sé stesso, i rumori ambientali sono praticamente azzerati, come se l’essere umano in causa fosse ovattato, chiuso in una bolla di sapone costruita dalla sua mente che crea uno spazio vitale dal quale egli non sente la necessità di dover uscire. In altri momenti, invece, laddove lui cerca di estrapolare lei dal suo essere inconsistente e virtuale, ecco che colori e suoni prendono il sopravvento e una certa fascinazione emerge dallo schermo.

Merito straordinario per la parziale riuscita del film va dato a Joaquin Phoenix, quell’attore eccentrico e poliedrico già visto molte volte in passato e che qui appare meravigliosamente imbambolato nel suo essere debole, nel suo essere vittima dell’insoddisfazione propria di un capitalismo che continua a prolificare ma non è più in grado di soddisfare. Perfetto Phoenix, pacato, sensibile, in altre parole: estremamente naturale. Decisamente meno riuscito è il personaggio interpretato da Amy Adams, la migliore amica del protagonista. Lei che altrove sapeva calarsi bene nel ruolo affidatole, qua sembra fuori luogo, una via di mezzo tra la miglior Nicole Kidman e la peggior Naomi Watts, ma questo probabilmente passa attraverso il trucco e i costumi.

Di nuovo, la figura di Joaquin Phoenix è strepitosamente delineata, con quelle sue mise un po’ retrò, quei pantaloni a vita alta, quelle camice con le maniche ripiegate sin sopra i gomiti e quegli occhiali tondi così stilosi. E poi i capelli un po’ scompigliati e il baffo ben definito. Insomma: questo Phoenix non è paragonabile ad altri visti in precedenza. La Adams invece è opposta. Trasandata, sciatta, ma ancor peggio: stereotipata. Il suo visino fine e delicato patisce il trucco assegnatole cosìcché le sue possibilità d’incidere nello spettatore sono ben poche.

Ruolo a parte è dedicato alla voce, la Scarlett Johansson pluripremiata e unanimemente apprezzata da critica e pubblico. La sua voce è sensuale, roca, profonda. Coinvolgente. Ma nella versione italiana è ovviamente doppiata, e l’ingrato compito è ricaduto su una Micaela Ramazzotti non disprezzabile ma nemmeno così stimolante come avrebbe dovuto essere. Le battute le recita, a tratti sa gestirle anche bene, ma non riusciamo mai ad amarla davvero, anzi.

Lei

Lei è un film dalla doppia anima: quella filosofico-esistenzialista della prima metà, coinvolgente e per certi versi realisticamente affascinante, e quella meramente sentimentale, che scade negli stilemi classici del film d’amore senza alcuna pretesa di apportare qualcosa di nuovo. Viene davvero da chiedersi se la profondità di analisi manchi al regista o se semplicemente a mancare sia il coraggio dei produttori del film nel finanziare un’opera valida ma non adatta a un pubblico così ampio e diversificato [si pensi a un finale con doppio suicidio: lo spettatore medio uscirebbe dalla sala indignato per essersi trovato di fronte a quello che, di fatto, è uno degli aspetti societari più scomodi, seppur imperanti, degli ultimi decenni].

7,5

Danilo Cardone

Venere In Pelliccia – Roman Polanski [2013]

18 novembre 2013

De adoratione

Venere In Pelliccia

L’arte è finzione oppure è espressione della realtà dell’autore, dunque nuova realtà?

A sue spese [oppure a suo guadagno?] è costretto [o costringe?] a scoprirlo il protagonista del film, regista teatrale che è anche casualmente attore principale delle vicende durante un provino. Thomas, che nel teatro nel cinema diventa Severin von Kusiemski, prima di ritornare a essere Thomas, senza però uscire più dalla parte. Thomas/Severin che non è altri che l’alter-ego di Roman [Polanski]. Le sue voglie, le sue perversioni di quelle già viste nel lontano 1966 quando un sottomesso Donald Pleasance subiva lo stesso processo di travestimento morale da donna, con tanto di rossetto sulle labbra, oppure nel 1976 quando lo stesso Polanski ne L’Inquilino Del Terzo Piano si auto-costringeva a vestirsi da donna per prendere le sembianze della precedente inquilina dell’appartamento.

Insomma, il regista polacco naturalizzato francese non può discostarsi dalle proprie vicende, non può inscenare una vicenda se al suo interno non descrive sé stesso con la maniacalità soltanto meno fobica con la quale un altro mostro sacro come Woody Allen si racconta egocentricamente in ogni suo film. Questo però non è un male, tutt’altro. È grazie all’obiettivo sempre costantemente puntato su stesso che l’autore può creare opere nuove, innovative e mai banali.

In Venere In Pelliccia lo spunto deriva dal famoso omonimo romanzo pubblicato nel 1870 dal Leopold von Sacher-Masoch, divenuto in seguito icona della cultura BDSM. Ma, al pari del Marchese De Sade con il quale ha vari punti in comune, Sacher-Masoch prima ancora che scrivere una storia erotica, traccia, anche involontariamente, linee fondamentali per la comprensione psicologica della natura umana. L’aspetto carnale che ne risulta nei fatti primario è in realtà secondario, è la conseguenza delle distorsioni proprie di ogni singola mente umana.

È a questo che si ancora maggiormente Polanski.

Sua moglie, la mai così brava Emmanuelle Seigner, è mezza nuda per la maggior parte del tempo filmico ma non per questo ci troviamo di fronte a un film erotico e sconcio. È l’aspetto psicologico che, ancora una volta, il regista indaga. La crudeltà [autobiografica] di Carnage è qui ridotta ai minimi termini ed è ancora più tagliente. C’è meno finzione nel rapporto diretto tra i due protagonisti, unici attori in scena, malgrado stiano provando la parte di una piéce teatrale, il coltello affonda dritto nella piaga della coscienza dei personaggi e in particolar modo dell’uomo.

Venere In Pelliccia

Ancora di più, malgrado la divina carnale figura della Seigner sia sempre sotto gli occhi di tutti, protagonista e spettatore, i due non si sfiorano mai, quasi fossimo in un racconto morale di Eric Rohmer. Sono le loro menti che si scontrano, che si strusciano l’un l’altra, che scintillano come pietre focaie. È la mente a essere vivisezionata dall’acutissimo Polanski.

Il risultato? È l’ambivalenza, pardon, l’ambiguità dell’essere umano, il suo credere di essere qualcosa che nella realtà si è ma solamente come maschera per nascondere il nostro vero io, la nostra vera natura animalesca assopita dalla buona morale societaria.

La sottomissione fisica che tanto ha ispirato il Novecento filo-masochista è l’aspetto anti-ascetico di una ricerca del sé che la mente non deve mai smettere di intraprendere.

Ed è qui che risiede la maggior parte della bravura del regista, non solo mantenendo l’ambiguità psicologica ma addirittura esaltandola all’ennesima potenza, riuscendo a ricavare da essa una tensione da thriller hitchcockiano. Lo spettatore sa sin dai primi istanti chi vuole chi e come lo desidera, perché è ovvio che una bella donna bionda e formosa in autoreggenti è il desiderio di un uomo che ha la maggior parte del fascino nella sua cultura, e quasi sicuramente l’attrazione può essere facilmente ricambiata. Dunque, partendo dalla banalità delle sagome iniziali, tutto ruota attorno a come e quando le due energie possano entrare in collisione ed esplodere.

La tensione è data dall’estenuante gioco della seduzione.

E la seduzione è un atto di amore, che porta a fare mosse più calibrate per paura di sbagliare ma anche a farne di avventate accecati dalla passione amorosa. Dunque pare proprio avesse ragione Friedrich Nietzsche quando scrisse che

«nell’amore vi è sempre un po’ di demenza. Ma anche nella demenza vi è sempre un po’ di ragione.»

Anche grazie a questa affermazione dobbiamo dunque accettare qualsiasi comportamento in amore. Non condividerlo per forza, ma prendere atto del fatto che non sia fuori luogo, se fatto in amore.

Ecco cos’è dunque la sottomissione per Sacher-Masoch: amore.

Amore puro. La sua sottomissione autobiograficamente trasferita nel suo Severin non è follia, ma atto di amore puro.

La domanda è: amore per chi?

Venere In Pelliccia

Il sottomesso è tale perché ama l’altro oppure perché ama sé stesso? E chi sottomette, sta davvero dominando oppure è lui il dominato in quanto rispondente alla richiesta del sottomesso che in realtà sta dominando?

Polanski è straordinariamente calato nella questione e non solo non dipana la matassa ammettendo che nell’amore vi è un po’ di demenza e viceversa ma ha la lucidità inaspettata di rileggere davvero la storia di Sacher-Masoch e l’intera interpretazione psicologica che ne deriva, sovvertendo gli elementi in scena, scivolando in una trascendenza mistica dal reale sapore mitologico, ancestrale, che vede il corpo umano come un accumulatore di energia che in tempi recenti poco altro oltre la metafisica di Julius Evola ha saputo svelare.

La complessità della natura umana, dunque, non solo non è svelata ma è complicata una volta di più e in tutto ciò non può esserci che la sottomissione, l’arrendevolezza dell’essere umano di fronte a sé stesso.

Nella nostra vita quotidiana però, non siamo circondati, ahinoi, da oltre-uomini nietzschiani e dunque l’uomo e la donna collidono sempre e costantemente come sessi opposti, parti separate della medesima natura che è costretta a doversi riconciliare.

Dunque, e si torna al romanzo, e si torna al film, l’uomo emerge come essere dichiaratamente superiore ma nei fatti completamente sottomesso alla bellezza intrinseca della donna e di ciò che essa può dare all’uomo. La donna, per contro, non è che la statua della divinità che l’uomo deve idolatrare, non è che l’impersonificazione di ciò a cui l’uomo deve rendere servile omaggio. Ma, ecco l’ambiguità, l’uomo sta amando davvero la donna o soltanto sé stesso? Il servile omaggio è atto di amore altruistico oppure egoistica imposizione che andrebbe mitigata con iconoclastia?

Polanski qui si, sembra davvero prendere una posizione e lo fa per mezzo della Seigner la quale da donnetta servile, si trasforma in donna dominante per poi sbocciare nella mistica divinità tanto agognata dal protagonista. La donna, viene detto più volte durante l’opera, non deve essere l’oggetto dell’uomo, non deve essere il solo mezzo per la felicità di quest’ultimo. La donna, secondo Polanski/Thomas/Severin, deve essere adorata, in ginocchio.

Ma allora, a cosa erano serviti gli ammonimenti che nel 1851 Arthur Schopenhauer aveva lanciato contro le “dame” del proprio tempo? Le donne, scrive il filosofo tedesco,

«sono le costanti istigatrici delle ambizioni non nobili dell’uomo e quindi, in forza della medesima qualità, il loro predominio e la loro influenza determinante sono la rovina della società moderna.»

Venere In Pelliccia

La rovina della società moderna, fattore assolutamente esente dai ragionamenti di Sacher-Masoch e di Polanski, i quali, in definitiva, paiono invece accomunati dal solo desiderio di godere di personale appagamento, che esso derivi da una donnetta, da una donna o da una divinità.

Mastro Polanski, dal canto suo, può essere, almeno sulla superfice della pellicola, il dominatore assoluto della figura estetica della moglie, l’ammaliante Emmanuelle Seigner dallo sguardo felino e dal capezzolo facile. È lei la vera protagonista estetica della scena e questo grazie alla bravura e all’amore [dunque sottomesso?] del buon vecchio Roman, il quale s’impegna con tutto sé stesso per donare alla moglie un fascino che mai era emerso in passato con tanta forza strabordante. I costumi, simbolicamente cambiati in corso d’opera, il trucco, le acconciature. Tutto è perfetto nella definizione cangiante d’un personaggio memorabile quanto i più memorabili della filmografia polanskiana.

E, quasi altrettanto, così è per Mathieu Amalric, il Severin della situazione, la controparte del regista. Bravissimo, Mathieu, nel rifiutare la Venere, nel calarsi negli sporchi panni dell’attore, nel desiderare la sottomissione a colpi di pelliccia e fruste [qui solo psicologiche].

E tutto ciò, nel semplicissimo e ristretto spazio del palco d’un teatro di periferia ancora parzialmente addobbato con scarse e falliche scenografie d’un mediocre spettacolo non ancora smontato. Polanski, veterano della macchina da presa, maestro, perlomeno di cinema, eccelle nella sua arte.

A centodiciotto anni dall’invenzione del cinematografo, a un secolo di distanza dal teatro filmato del cinema delle origini, lui, il polacco filo-francese, scarnifica il cinema riducendolo a qualche taglio di montaggio e a un po’ di fari fuoriscena. La fluidità con il quale tutto scorre, tra l’altro già vista analogamente nel bel La Morte e la Fanciulla, suo film datato 1994, dà quasi l’impressione di un long take ripreso da più macchine da presa e solo per questo motivo montato in post-produzione.

Il teatro torna a brillare nel cinema, sottomettendolo o rimanendone sottomesso?

Non importa, ovviamente, cercare una risposta a tutto questo. Ciò che è, è, e per questo bisogna apprezzarlo. Senza troppe masturbazioni mentali l’uomo deve donarsi [anche in sottomissione incosciente] a ciò che lo circonda.

E così, ciò che era venuto, se ne va, nella più classica delle circolarità polanskiane.

Venere In Pelliccia

Venere In Pelliccia è un gioiello, una perla da ammirare in silenzio, senza soffermarsi a domandarsi se il cinema non dovrebbe essere prima immagine che parola, perché in fondo, malgrado la fortissima e nutritissima sceneggiatura, se questo film fosse muto non perderebbe il suo seducente fascino. E ora, che Polanski torni immediatamente dietro la macchina da presa.

9,5

Danilo Cardone

Giovane E Bella – François Ozon [2013]

8 novembre 2013

(p)ossessione

Giovane e Bella

Una diciassettenne come tante inizia a prostituirsi per il solo piacere di farlo. Cosa cela la sua mente dietro a questa necessità?

È da questo quesito, ma non solo, che riparte il talentuoso regista francese François Ozon. Lasciato il pubblico soltanto pochi mesi fa con la voglia di altre indagini psicologiche ozoniane grazie al riuscitissimo Nella Casa, il metteur-en-scene cambia registro passando dall’indagine nei rapporti tra individui a quella introspettiva di un unico personaggio protagonista, la giovane e bella Isabelle/Lea, alle prese con le proprie turbe e necessità.

Il risultato finale è un film elegante, raffinato ma che affonda il colpo solo per metà insistendo incessantemente su dettagli tipici del cinema francese, come primissimi piani, dettagli, sguardi, e altrettanto sulle scene di nudo, presenti in gran quantità sullo schermo. Più che un plauso verrebbe da tossicchiare leggermente di fronte a ciò, di fronte a un Ozon in fin dei conti più uniformato del solito ad altre produzioni contemporanee.

Il momento più basso del film è probabilmente raggiunto con quel pre-finale mocciano sul ponte dei lucchetti, luogo di promesse di eterno amore adolescenziale ma anche di sonore imprecazioni di uno spettatore tendenzialmente cinefilo che eviterebbe volentieri di subire tali ovvietà non solo nella vacua quotidianità ma anche nella ricostruzione cinematografica che ne viene fatta.

Così anche la suddivisione in capitoli, dove ogni singola sezione è introdotta da un cartello recante il nome di una stagione differente. Insomma, la soluzione trovata per metaforizzare il passaggio da adolescenza a maturità della protagonista appare molto stantia, già vista, banale, prevedibile e in fin dei conti superficiale nella sua estremizzazione.

Anche determinate scelte registiche appaiono un po’ forzate, non ritagliate da una sensibile mano come quella che solitamente Ozon dimostra.

Giovane e Bella

Già la scelta della protagonista, a dir la verità, lascia un po’ a desiderare. Marine Vacth, splendida fanciulla di ventitré anni che però nel film interpreta una ragazza di diciassette. In certi momenti, soprattutto al cospetto della sua migliore amica, si avverte lo scarto di età. Inoltre, e soprattutto, alla Vacht bisogna riconoscere il merito d’essere molto brava nel recitare la sua parte ma, ahinoi, priva di quello guizzo negli occhi, di quella fiammella ardente che una ragazza con tali tendenze, recidive e mai sopite, dovrebbe avere. Il suo sguardo è melanconico, come emerge anche dai dialoghi del film, è calamitante, particolare, complesso nella sua semplicità, penetrante nel suo essere sommesso, eppure rimane tale, melanconico, riflettente dunque una parte della protagonista che è presente ma non preponderante in lei. In altre parole: bella è bella, soprattutto quando truccata da lavoro, però non può effettuare quell’antitetica mutazione da dottor Jekyll a mrs. Hyde, e forse non è un caso se, nella sua splendida eleganza, non eccelle nella camminata quando indossa un paio di scarpe col tacco.

Eppure Ozon sa bene quel che fa e a fianco di certi aspetti non esaltanti accosta il suo classico cinema mimetico, dove la regia è straordinariamente presente ma mai preponderante. È compito del critico, dello storico del cinema o anche del semplice cinefilo individuare eventuali citazioni [la più evidente è quella da Murnau nei primissimi minuti del film] e persino la bravura nel costruire scene e inquadrature che, data la loro naturalezza, rischia di passare inosservata ma che non per questo è assente.

Il riferimento principe per Ozon rimane sempre e comunque la nouvelle vague francese. A livello registico se ne può osservare la presenza, con i primi piani insistiti, per esempio, ma anche come tematica. Come non paragonare infatti la Isabelle-Lea di questo film con la prostituta per caso più famosa del cinema francese, la Nana di Vivre Sa Vie diretto da Jean-Luc Godard nel 1962? L’inarrivabile Anna Karina, fotografata tra la frivolezza d’un ballo in un bar e l’intima disperazione incontrollata durante la visione della Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer del 1928, ha una storia forse meno contratta, più distesa, quasi picaresca nella Parigi degli anni Sessanta, ma è il tema ad accomunare i due registi. Se Godard prese spunto da un avvenimento reale per imbastire le vicissitudini della protagonista, Ozon sembra fondare le sue ambizioni altrettanto veemente nell’attualità, nel disagio giovanile che, grazie alle nuove tecnologie ampiamente accessibili da quasi tutti, può trovare sfogo in soluzioni estreme e non ragionate con sufficiente attenzione come accade alla protagonista del suo film. La facilità nel trovare apprezzamenti a suon di 300€ fa gola a una ragazzina con grandi mancanze ma anche grandi vizi.

Giovane e Bella

Dunque Ozon ricalca, ma molto meno incisivamente, il difficile tema già brillantemente indagato dal prodigioso Steve McQueen in Shame dove a un formidabile Michael Fassbender a cui nulla manca, in realtà tutto manca.

La fredda materia può sostituire il calore di un rapporto umano?

In Giovane e Bella questo aspetto è evidenziato ma con meno acutezza rispetto a Shame.

Ozon però segue le orme di Godard, ma mentre Godard prendeva spunto dall’attualità per effettuare una colta denuncia [quanto sentita e quanto mero pretesto?] in perfetto stile pre-sessantottino, Ozon dà forse l’impressione di voler cavalcare, non necessariamente in maniera ruffiana, un tema “facile”, di cui tanto si parla in questi ultimi anni.

Inoltre Vivre Sa Vie è un capolavoro di tecnica registica, di montaggio, di colonna sonora, di fotografia, mentre Giovane e Bella può davvero apportare qualcosa di nuovo a livello tecnico?

E ancora: Vivre Sa Vie era impregnato di filosofia. Prima in maniera celata e poi palesata con il dialogo al bar tra la protagonista e un vero filosofo, ma in Giovane e Bella dove risiederebbe un’indagine così approfondita della realtà?

Insomma: se al film di Ozon togliamo l’aspetto tecnico e quello filosofico non rimane che una storia. Una storia narrata a forza di immagini, primi piani, stanze con corpi nudi che si avvinghiano, sguardi che sfuggono e via dicendo, ma siamo pur sempre di fronte a un film che in primis non ci racconta altro che una storia, che non è un male ma che limita le potenzialità espressive e di trascendenza che dovrebbero sempre far parte di un’opera d’arte.

I veri punti di forza del film emergono verso il finale.

Giovane e Bella

Perché la ragazza, minorenne, bella e viziata, è costantemente tesa al rifiuto dei suoi coetanei, al rifiuto del loro amore, in favore dello squallido amore a pagamento di arzilli ricchi vecchi che ingoiano pastiglie di Viagra come se fossero semplici caramelline alla menta?

È questo l’aspetto forse più interessante del film, perché lascia trasparire la natura umana, l’ancestrale impulso vitale insito nell’uomo, nel suo spingersi oltre, per esperire, come l’uomo primitivo andava incontro al fuoco.

Il desiderio di sentirsi vivi e di spingersi sempre oltre, quell’emozione di sostare in bilico al bordo di un precipizio che quasi ci fa venir voglia di proporre un paragone con le migliori performance del periodo più attivo di Marina Abramović, come quando rimaneva appesa all’arco caricato con una freccia dritta puntata verso il suo cuore tenuta in fragile tensione dal suo fido compagno Ulay.

È l’apparizione fugace di una sempre intensa Charlotte Rampling a riassumere la codardia dell’uomo, il desiderio voyeuristico represso dalla vergogna dalla maggior parte delle persone ma non per questo in loro assente.

L’altro aspetto interessante del film è una delle costanti del cinema ozoniano. Non l’omosessualità, questa volta un po’ inaspettatamente relegata a un velatissima pennellata finale, bensì il ruolo della donna. Ozon l’ha indagato già in tutti i modi attraverso i suoi film, ogni volta giungendo a una duplice conclusione mai dipanata: la donna è vittima o carnefice? La donna è colpevole o innocente dei mali suoi e di quelli dell’uomo?

Questo aspetto ossimorico ma al contempo vigente nella donna in quanto entità dell’essente era emerso con gran forza nell’apparentemente frivolo 8 Donne e un Mistero del 2002, ma qui torna con altrettanto vigore. La donna, la protagonista, la madre, la moglie del cliente/amante: sono tutte sfaccettature della medesima natura, sono solo persone che a turno camminano sul filo che separa labilissimamente l’innocenza dalla colpevolezza.

Ozon non giudica, mai, e tantomeno lo fa qui, condannando e assolvendo una Maddalena che vuole ma non può redimersi.

Giovane e Bella

Giovane e Bella è dunque un buon film, apprezzabile per molti versi ma un po’ debole nel suo complesso.

7

Danilo Cardone

Il Nastro Bianco – Michael Haneke [2009]

6 settembre 2013

Le tre età dell’uomo

Il Nastro Bianco

In un villaggio del nord della Germania, alle soglie della Prima Guerra Mondiale, alcuni eventi condizionano il quieto trascorrere delle abitudinarie funzioni comunitarie.

Michael Haneke, regista pluripremiato nonché uno dei pochi contemporanei a ragionare sempre e costantemente sulla forma dell’opera, a due soli anni di distanza dal remake del suo stesso film Funny Games, si cimenta nella realizzazione di un sottile thriller ambientato in un’epoca storica neppure così troppo lontana. Non ci sarebbe nulla di male in tutto ciò, se non fosse che Haneke, proprio lui, il pluripremiato, non fa altro che confermare sé stesso e la sua [non] poetica della forma.

Se l’intenzione era di stupire proprio attraverso la forma, c’è riuscito, non c’è dubbio. Meno di altre volte, ma la bellezza d’una fotografia straordinariamente contrastata ed emotivamente oscura dove la luce talvolta squarcia e talvolta accarezza le zone buie, è di sicuro impatto. Si potrebbe richiamare Bergman però il paragone sarebbe un po’ facile e soprattutto estremamente esagerato rispetto allo spessore del film.

Il Nastro Bianco

Il sottile intrigo che si sviluppa è infatti troppo sottile per poter reggere i 140 minuti della durata del film. L’atmosfera è delicata persino quando aspra per i fatti che stanno accadendo ma dentro questa meravigliosa confezione preparata con affascinante carta da regalo d’altri tempi, cosa rimane? La trama così scarna, semplice, lineare, alla quale, tra l’altro, non viene nemmeno dato un epilogo [che non sarebbe un male se non fosse che il regista si ancora disperatamente all’intreccio per cercare di incollare assieme le scene], può davvero interessare lo spettatore?

La messa in scena di episodi di vita di un villaggio d’inizio XXsec. è sensuale, stimola i rimasugli di romantiche fantasie tardottocentesche che l’uomo del XXIsec. non è ancora [fortunatamente] riuscito a scrollarsi via di dosso, ma questo è sufficiente per la creazione d’un’opera di così alto livello come la pretenziosità del regista palesa? Non è soltanto il fatto che allo spettatore poco importa se il medico abbia rapporti incestuosi con la figlia o se il maestro si sposerà con la giovane verginella di turno, è il fatto che dietro all’apparente analisi psicologica, volutamente amplificata dal bianco e nero che arcaicizza e che aiuta la messa in ombra di ciò che non merita di stare sotto la luce [divina, per il contesto storico nel quale illumina], non ci sia in realtà alcuna analisi psicologica.

Il Nastro Bianco

Varie sono le lacune che si sommano alla quella vastissima lasciata dalla trama, debole e già affrontata al cinema in moltissime altre occasioni [Il Villaggio Dei Dannati non era piaciuto abbastanza al regista?]. I primi piani, per esempio. Cinematograficamente vanno benissimo, ma in che modo possono fare presa sullo spettatore? Come possono scavare nell’intimità dei personaggi nel modo in cui sono realizzati? E la sceneggiatura? Perché è così incommensurabilmente superficiale? Perché si ha costantemente la stessa impressione che si ha quando si arriva alla lettura di tre quarti di uno splendido romanzo, dove nulla è ancora successo e dove ci si stupisce che la fine del terzultimo capitolo non sia invece la fine della sola introduzione?

Si prenda, per un semplice esempio, la scena dove un bambino di quattro o cinque anni chiede alla sorella di una decina di anni più vecchia che cosa sia la morte. Affrontare una scena di questo tipo significa inevitabilmente confrontarsi con tutta la facilissima retorica che si può fare a riguardo e nella quale s’incappa con strepitosa facilità, dunque nel momento in cui sceneggiatore e regista hanno optato per l’inserimento di tale scena si saranno posti il problema di come evitare palesi ovvietà. Purtroppo pare che non si siano dati una risposta troppo acuta, dunque il risultato è quello che si vede nel film, ovvero una successione di frasi fatte pronunciate dal bambinello di turno che per il solo fatto che ha la vocina e la faccina da pulcino sperduto non significa che si stia assistendo a chissà quale momento toccante del cinema contemporaneo. La lacrimuccia a coronare il tutto è l’esaltazione di un nulla mascherato da capolavoro per mano del suo stesso creatore. In altri contesti Haneke verrebbe chiamato imbonitore e non cineasta, ma questo è un altro discorso…

Il Nastro Bianco

A fronte di ciò la bella forma insinua il dubbio in noi che ci si trovi di fronte a un bel film, in grado di darci qualcosa, di stimolare un immaginario un po’ sopito dalla fretta che contraddistingue la nostra contemporaneità. Poi, però, la stessa magia che sostiene le lampade durante le scene notturne, svanisce miseramente in momenti d’inutilissimo dialogo come quando il barone viene informato dalla moglie che durante il suo soggiorno italiano oltre a bei paesaggi e un clima mite, ha trovato anche almeno un paio di buone ragione per pensare di non tornare più nella fredda e patronale Germania contadina.

Bisogna ammettere che c’è qualche buona scena che merita d’essere salvata e non solo per la forma. Sono primariamente le scene violente, per poche che siano, ovvero la lite di tre ragazzini per un flauto ai bordi di un laghetto e l’umiliazione verbale che il dottore attua con gradita veemenza nei confronti della sua domestica, arrendevolmente innamorata di lui. Qui salta fuori l’Haneke più crudo, quello del primo Funny Games, meno lusingato dalla commissione americana, quello delle apprezzabili forzature di Niente Da Nascondere e de La Pianista. C’è chi ha intelligentemente visto ne Il Nastro Bianco il germoglio per le represse angherie che condurranno con strepitosa naturalezza alla Seconda Guerra Mondiale, però, secondo questa non errata interpretazione, si potrebbe vedere ogni film, ogni storia, come la causa degli avvenimenti futuri e per questo ogni opera può essere largamente elogiata.

Molto buone le interpretazioni che, come sempre accade agli attori agli ordini di Haneke, infondono veridicità ai loro personaggi. Addirittura, forse, i più convincenti sono i bambini.

Il Nastro Bianco

Il Nastro Bianco è un film esteticamente bello ma che non porta da nessuna parte, è un piedistallo che vorrebbe sostenere sé stesso.

7

Danilo Cardone

84 Charing Cross Road – David Hugh Jones [1987]

23 agosto 2013

Prendimi l’anima

84 Charing Cross Road

Una donna di mezz’età è una fervida amante dei libri e in particolar modo delle pubblicazioni inglesi della seconda metà dell’Ottocento. Sfortunatamente per lei è residente nella New York degli anni ’40 e il reperimento di tali volumi è sufficientemente difficoltoso. Inizia così una fitta e sempre più personale corrispondenza con un libraio commesso in una fornita libreria londinese.

Il collezionismo è una passione che, prima o poi, in grande o in piccolo, contagia molte persone. È inutile ripercorrerne la storia, bensì è ben più utile evidenziare come esistano due tipi di oggetti collezionabili: da un lato esistono gli oggetti che possono vantare una benché minima utilità, mentre dall’altro ci sono gli oggetti totalmente inutili, prendipolvere amorevolmente o maniacalmente accumulati nel corso degli anni con il solo scopo di arricchire una determinata collezione. I libri, per fortuna, fanno, nella maggior parte dei casi, parte della prima categoria, quella degli oggetti almeno parzialmente utili. Il collezionista di libri può custodire libri per il solo gusto estetico, ma difficilmente la maggior parte dei libri che compongono una libreria personale, per grande o piccola che sia, sono frutto di ricerche meramente estetiche.

Il libro è dunque una fonte d’informazioni che, per varie ragioni, trasuda, a seconda dell’edizione e del suo pregio o della sua storia, fascino. Tra lettore e collezionista di libri la differenza spesso non è poi così marcata cosicché quando un comunissimo lettore si avvia alla ricerca di un libro per il suo contenuto, non cercherà che l’edizione più gradevole da possedere, da sfogliare, da leggere semplicemente o persino da annotare.

84 Charing Cross Road

Helene Hanff era una scrittrice. Non troppo di successo e dunque nemmeno troppo facoltosa, eppure amava leggere libri. Negli States, patria del consumismo, imbattersi in abbordabili edizioni di libri del secolo precedente non era consuetudine, dunque quando dalla lontana e fascinosa Inghilterra le iniziano a spedire edizioni rilegate e con coperta in pelle, la vorace miss Hanff entra nel tunnel senza via d’uscita della ricerca compulsiva di testi introvabili appartenenti a quel periodo storico e a quel luogo geografico così distante ma così tanto sognato e ammirato proprio attraverso le pagine lette, rilette, consumate.

Seppure la corrispondenza con i suoi calorosi fornitori di libri dal Vecchio Continente si fece sempre più insistente, la possibilità di visitare direttamente quei suoi angeli custodi della letteratura non l’ebbe mai o quasi. Lei non poteva fare altro che continuare a immaginare, persino nella corrispondenza epistolare, esattamente come nei libri, ciò che accadeva aldilà dell’oceano, le reazioni di chi gestiva quel paese incantato, ancora dotato di re e regina, e neppure le facce di quei topi da biblioteca sempre al suo gradito servizio. E i profumi? E i colori? E quel caotico disordine dove ogni cosa è sempre e comunque al posto in cui deve essere? Alti scaffali in legno alti fino al soffitto pieni zeppi di libri, di ogni epoca, ogni autore, ogni colore, ogni materiale, dove gli appassionati librai inglesi non mancano mai di bere il tè delle cinque, a costo di allestire una cucina nello scantinato, anch’esso affascinantemente invaso dagli stessi libri che qualche lettore collezionista prima o poi, forse, chissà, sarebbe andato a cercare.

La fantasia ha rinvigorito, giorno dopo giorno, la vivacità di quella corrispondenza durata quasi vent’anni, il fascino del mistero del quale gli stessi protagonisti della vicenda erano portatori.

La ricerca del libro è il pretesto per il contatto epistolare oppure quest’ultimo è un gradito corredo alla forsennata e mai doma volontà di scovare nuovi tomi da consultare e possedere?

84 Charing Cross Road

Non importa rispondere a questa domanda, così come non importa il ceto sociale, il grado d’istruzione, e in fondo nemmeno i lineamenti del viso e il tono della voce di chi contribuisce a fare di tutto ciò un momento d’indimenticabile e indispensabile evasione dalla stancante e noiosa routine quotidiana, che sia costui l’autore del libro oppure chi lo ha consegnato nelle nostre mani.

Insomma, se a metà degli anni ’80 questo mondo sorpassato da una trentina d’anni e che si riferiva a sua volta a un mondo esistito con un altro mezzo secolo di anticipo, sembrava già facente parte di un momento aureo, tenero e delicato come un dolce sogno, cosa dovremmo dire noi oggi, spettatori e lettori del ventunesimo secolo? Non solo il collezionismo di libri si è esteso clamorosamente con i nuovi mezzi di comunicazione rendendo la ricerca di un libro più facile ma un po’ meno diretta e affascinante, non solo i libri vengono letti sempre meno e rimpiazzati da metodi di fruizione delle informazioni sempre più freddi e rapidi, non solo i libri stampati da trent’anni a questa parte sono materialmente scadenti ai limiti dell’usa e getta, ma a noi, comunicatori degli anni Duemila, non è nemmeno più rimasto il fascino della comunicazione epistolare. Internet ci garantisce collegamenti con l’altra parte del globo in un millisecondo, ci permette di accedere a infinite informazioni, ci permette di scrivere parole come queste e condividerle con lettori come voi che, ed io ve ne sono ben grato, siete arrivati sino a questo punto della lettura dell’articolo, eppure internet ha un po’ ucciso il fascino della comunicazione a distanza, azzerando o quasi i tempi di attesa e la matericità di quello scambio, dove persino un semplice foglio di carta scritto a penna costituiva motivo d’interesse, di sottile e spesso inconsapevole feticismo nei confronti della persona che quella lettera l’aveva toccata, scritta e vissuta prima di donarla a noi, destinatari non solo del pensiero ma anche del prodotto sensorialmente tangibile di quel tempo a noi dedicato. Dunque qui non si rinnega la nuova comunicazione bensì, bisogna ammetterlo, dopo la visione di questo film non si può che provare un po’ di nostalgia per quelle belle vecchie macchine da scrivere, se non addirittura per quei bei fogli di carta, che, senza inondare le nostre facce di radiazioni e onde luminose, sapevano egualmente calamitare le nostre fantasie, quasi come la tela per un pittore, luogo dove è possibile concretizzare e fissare ciò che noi e solo noi possiamo vedere nell’oniro, nel trasognante mondo delle nostre immaginazioni, speranze, illusioni.

84 Charing Cross Road

Il film stimola tutto ciò e ben altro, e la storia d’amore platonico tra i due protagonisti non è che la notazione a margine di un romanzo autobiografico scritto da un’amante, che sia di oggetti o di esseri umani.

Purtroppo agli elogi, che potrebbero tranquillamente continuare per un paio d’altre pagine se non di più, bisogna affiancare i limiti del film. Bravo Anthony Hopkins nel suo ruolo da libraio inglese, anche se la più brava sulla scena è Anne Bancroft, straordinaria nel delineare l’ironica, appassionata e po’ isterica figura della protagonista, newyorkese fino al midollo per molti versi ma per altri ancora straordinariamente vittoriana.

È il regista a deludere con una messinscena mai incisiva dal punto di vista visivo, né luministico né di montaggio o quant’altro e che, anzi, laddove prova l’azzardo rischia di distruggere [e in parte ci riesce] quanto di buono aveva [non] fatto. Il riferimento è ai momenti, radi ma più che sufficienti, quando la protagonista, alle prese con le sue lettere, si rivolge allo spettatore guardando e ammiccando direttamente nella macchina da presa. Dal momento in cui siamo distanti anni luce dagli sguardi in macchina di una Anna Karina qualsiasi della nouvelle vague francese degli anni Sessanta e dunque non serve spezzare schemi cinematografici pre-esistenti con il solo scopo di stravolgerli e ri-fondarli, qual è l’utilità di quelle scene se non cercare di strizzare l’occhiolino verso uno spettatore che si dovrebbe sentire così ancora più coinvolto nelle vicende? Il regista dimostra in un istante tutta la sua superficialità nel trattare l’intero tema, rompendo con questo triste espediente il magico incanto d’una fiaba realisticamente possibilistica e palesandone tutta la sua finzione. Proprio nel momento in cui lo spettatore è immerso idealmente tra alte pile di straordinarie edizioni finemente rilegate elegantemente appoggiate dentro al negozio-scrigno locato all’84 di Charing Cross Road a Londra o accatastate in un monolocale della Grande Mela, quegli sguardi in macchina sgretolano ogni fantasia rigettandoci a due mani sulla poltrona del cinema o sulla sedia del nostro salotto.

84 Charing Cross Road

84 Charing Cross Road rimane comunque uno dei pochissimi film a tema profondamente bibliofilo e tutto ciò non può che essere ammirato e apprezzato. Se solo i nostri giovani e cari registi, al giorno d’oggi, sapessero lasciarsi nuovamente affascinare da certe passioni potremmo, se non guadagnare necessariamente in grandi opere d’arte cinematografica, perlomeno ricavarne in affascinantissime storie in cui lasciarsi serenamente coinvolgere.

8

Danilo Cardone

Sguardo Nel Vuoto – Scott Frank [2007]

21 agosto 2013

Fosforo

Sguardo Nel Vuoto

Un ragazzo azzarda a guidare a fari spenti nella notte in una buia strada di campagna. Incidente. Due suoi cari amici muoiono e lui rimarrà psicologicamente scioccato. Un amico cieco e la volontà di riscatto lo porteranno a esiti inimmaginati…

Da discreto sceneggiatore a discreto regista il passo è breve.

Scott Frank decide comunque di compierlo, rischiando e il rischio non è nemmeno dei più semplici. Questo film che apparentemente potrebbe sembrare un ensemble di storie già viste in altri film e che in definitiva si rivelerà più o meno tale, contiene un cuore psicologico di raffinata delicatezza.

Il problema sta proprio qui: uno sceneggiatore nato e cresciuto in quel di Hollywood, quante possibilità ha di giocare efficacemente sulla psicologia in un film pseudo-thriller che si fonda attorno a una rapina in banca?

Tra palate di retorica e ricorrente senso di déjà vu il film riesce comunque ad articolarsi in due fasi distinte e interconnesse tra loro. La prima è quella dell’incidente invalidante e del racconto dei disturbi ereditati da quella evitabile fatalità. Questa sezione è un po’ noiosa, irta di luoghi comuni e di facili patetismi discretamente celati dietro a trovate da cinema pseudo-indie. Il risultato non è negativo, ma nemmeno positivo. Insomma, il cinema che vorremmo vedere è ben altro.

La seconda parte non è meno retorica con quella rapina in banca andata male e le dovute conseguenze. Ciò che convince è come crescano di pari passo ritmi ed approfondimento psicologico. L’azione si movimenta [che in un film di questo tipo è fondamentale] e, per contrasto, la difficile situazione psicologica ed emotiva del protagonista si ingarbuglia sempre di più alimentando i devastanti sensi di colpa che lo tormentano, e trascinando con sé uno spettatore impossibilitato a reagire ai soprusi ricevuti, tanto quanto li subisce il protagonista stesso.

Sguardo Nel Vuoto

C’è sempre un velo di delicatezza in questo film. C’è una sensibilità che traspare con frequenza sotto la coltre un po’ plastificata del prodotto finale, e questo è sicuramente apprezzabile. Le prese in giro e gli inganni perpetrati dal personaggio cattivo della situazione, una sorta di Lucignolo cresciuto, non convincono fin da subito lo spettatore, e questo perché il regista dissemina le scene d’indizi che se da un lato tolgono la perfetta immedesimazione con la consapevolezza dei fatti del protagonista, dall’altro lato aumentano una tensione psicologica che altrimenti latiterebbe a fronte di un plot forse un po’ sconnesso ma di fatto molto semplice.

Anche i personaggi secondari concorrono a infondere umanità alle situazioni. Il poliziotto con la moglie incinta, il cieco convivente del protagonista, l’amante mendace ma in fondo sincera. Insomma, personaggi classici, giustapposti per far commuovere chi guarda il film. Malgrado ciò c’è quella sensibilità che ricorre, anche e soprattutto grazie [e per colpa del] caso che, seppur con un montaggio sufficientemente pietoso, restituisce un certo senso di forzata spontaneità nei rapporti umani.

Più che il regista sono bravi gli attori, a partire da Joseph Gordon-Levitt, un po’ troppo ripetitivo in questo tipo di film che tanto gli vanno a genio, ma in fin dei conti abbastanza sopportabile. Discretamente valido è anche Matthew Goode, lontano dalla tutina kitsch indossata in Watchmen ma anche distante dalla efficacissima prova attorale fornitaci nel bel Match Point di Woody Allen. Il più bravo di tutti è però, senza ombra di dubbio, l’esperto Jeff Daniels nei panni del cieco amico del protagonista. La parte è piccola e forse il regista/sceneggiatore poteva imboccargli qualche battuta in più, eppure Daniels sa rendere credibile il suo personaggio tramite un’interpretazione personale che appare quasi fuori luogo quando deve pronunciare battute di basso livello, come gli capita verso il finale del film.

Buona colonna sonora.

Sguardo Nel Vuoto

Sguardo Nel Vuoto è un film che si può guardare senza troppi problemi. È una di quelle produzioni che non sono in grado di entusiasmare e che non si riguarderanno in un futuro breve. C’è però qualcosa di valido, una certa empatia con il personaggio protagonista, che può valere il tempo della visione.

6,5

Danilo Cardone

Ricky, Una Storia D’Amore E Di Libertà – François Ozon [2009]

23 luglio 2013

Amore sacro, amor profano

Ricky, Una Storia D'Amore E Di Libertà

Un bambino nasce e gli crescono le ali.

François Ozon, insolitamente scevro da qualsivoglia sfumatura omosessuale, delinea un’opera crudamente raffinata che nulla risparmia all’occhio dello spettatore e che al contempo lo accompagna in ambienti realisticamente onirici.

All’uscita nelle sale non tutta la critica apprezzò l’opera. Da un regista così poliedrico che a ogni film affronta un genere differente senza mai stravolgerne le regole eppure creando opere di sensibile caratura, nessuno sa mai bene cosa aspettarsi. Chi travolse Ricky con le più aspre critiche fu però il pubblico, diviso tra chi si aspettava un Ozon più intellettuale e chi leggendo la trama si è portato in sala con l’aspettativa di una sottospecie di horror pomeridiano. Sbagliarono un po’ tutti. Il film non è affatto un horror bensì più un dramma esistenziale, se proprio lo si deve infilare forzatamente in qualche categoria, così come non sembra rapportabile a precedenti nella filmografia dell’elegante regista francese.

Ricky è una storia complessa che si sviluppa, quasi sboccia, proprio nel momento in cui anche al neonato sbocciano le sue mobili protuberanze, mai celate all’occhio dello spettatore. Dalla prima metà realista ambientata tra una fabbrica spersonalizzante e una casa fatiscente in un sobborgo parigino, si passa alla più pura astrazione, al più folle dei risvolti. La bravura di Ozon straripa nel tagliare i tempi, accelerando vertiginosamente il ritmo del cuore del film che ingabbierà lo spettatore così come farà con il piccolo tenerissimo mostro, l’abominio, il nuovo Elephant Man, potenziale fenomeno da baraccone con la coscienza dell’oltre-uomo nietzschiano, di un Gesù Cristo dalle ali caravaggesche in grado di decrisalizzarsi per natura, ovvero vocazione divina.

Costui, l’essere, scompare [dalla culla] e riappare [in cielo] come il Salvatore fuggì dal suo sepolcro per ri-apparire dopo tre giorni, anima risorta che con il corpo non fa altro che stupire, affascinare, ammaliare.

Ricky, Una Storia D'Amore E Di Libertà

Nel film, nella seconda metà, ogni logica e ogni buon senso si volatilizzano per lasciare spazio alla preparazione materiale, dura e a tratti apparentemente demenziale [ci si diriga al reparto surgelati di un buio supermercato], prologo per l’apoteosi poetica dell’amniotico prefinale e del finale stesso, inno sacro alla famiglia.

Dal canto suo, il muto redentore, non fa che seguir la sua vocazione straordinariamente non curante di tutte le attenzioni che l’amorevole madre e l’ancor più amorevole sorellina gli dedicano, andando all’istintiva continua ricerca della luce, dell’aria aperta di una libertà che è dovuta a ognuno di noi. E non è infatti un caso se al primo volo [filmato dalla macchina da presa] si dirige subito verso il cielo, una finestra chiusa con la quale si scontra ancor prima di essere in grado di definirla.

I genitori, carcerieri della propria creazione e delle proprie insoddisfazioni, svendono il proprio corpo [via un figlio avanti un altro] e il piccolo freak, alla massa, allo spettacolo, al pubblico ludibrio ma non alla scienza, come fosse l’ultima invenzione tecnologica da mostrare per fare invidia agli amici, come un giocattolo, un palloncino che, di fronte all’esterrefatto stupore del suo possessore, sfugge di mano e vola verso nuovi lidi, di purezza, di libertà.

Per questo Ricky è un gran film. Per il lirismo che esplode nella parte conclusiva, per l’inno alla gioia che inconsciamente ogni spettatore penserà d’aver ascoltato.

Qualcosa nel film non funziona, prima fra tutte la coerenza, ma dato il carattere visionario e surrealista non è la caratteristica che si deve cercare.

Ottimi gli effetti speciali, così come buona è la fotografia. Anche gli attori dimostrano d’essere in grado di reggere la parte. Alexandra Lamy è brava a recitare senza alcun tipo di trucco e Mélusine Mayance, la bionda sorellina, riesce a infondere uno spessore [soprattutto nella prima parte] come difficilmente un attore di quell’età, per di più non protagonista, riesce a fare. Perfetto, suo malgrado, il piccolissimo Arthur Peyret, mentre un plauso va fatto al già collaudato Sergi López a cui basta uno sguardo qualsiasi per riportarci in un istante ai [suoi] fasti di quando interpretava lo spietato Capitano Vidal ne Il Labirinto Del Fauno, film diretto da Guillermo Del Toro soli tre anni prima. D’altronde, bisogna sottolinearlo, il suo personaggio nel film di Ozon è probabilmente il più controverso, il più difficile da inquadrare e grazie alla sua interpretazione quest’ambiguità è perfettamente resa tanto da infondere nello spettatore il continuo dubbio sulla sua natura e sulle sue intenzioni.

Ricky, Una Storia D'Amore E Di Libertà

Ricky è un bel film che a causa dell’inconsistenza complessiva data da una non risoluzione e da uno svolgimento narrativamente non troppo coinvolgente, ha buone chance di deludere lo spettatore. Però, e il suo regista lo sa bene, ha una vena di pura poesia, di animalesca consapevolezza della propria essenza che rende questo film, per un verso o per l’altro, indimenticabile.

8

Danilo Cardone