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Lei – Spike Jonze [2013]

17 marzo 2014

Sfera

Lei

Un uomo s’innamora della donna creata da un software.

Il tema non è nuovo, non c’è ombra di dubbio. Malgrado ciò molti spunti sono in grado di calamitare lo spettatore, soprattutto per la prima parte del lungometraggio.

Il perché è semplice da spiegare: la storia è ambientata in un futuro che è già il nostro presente lievemente potenziato a livello tecnologico. La moda non è dissimile dalla nostra, le passioni nemmeno. Tutto è come nel nostro presente, eppure c’è qualcosa in più a livello tecnologico.

Quel qualcosa è la simulazione della vita.

Un potentissimo programma per computer genera un essere cibernetico che si palesa esclusivamente attraverso strumenti informatici, come la produzione di brani musicali, l’invio e la lettura di email e sopratutto la voce.

La voce.

Tutto passa attraverso di essa. Una voce amica, una voce confidente. Una voce che sa accarezzare la nostra anima e che al contempo sa ricevere i medesimi stimoli. Tutto è fittizio ma tutto pare reale.

Cosa è dunque la realtà? E dove inizia la nostra immaginazione? Realtà e immaginazione possono fondersi? Noi dobbiamo permettere che ciò avvenga?

Quesiti esistenziali già indagati decine e decine di volte al cinema [si pensi al poetico Ferro 3, La Casa Vuota di Kim Ki-Duk del 2004] che sfociano nell’asetticità della coscienza dell’uomo moderno.

Tema già analizzato nello splendido Shame di Steve McQueen, l’uomo odierno è schiavo dell’illimitatezza apparente delle sue possibilità. Tutto è a nostra disposizione, attraverso un semplice clic del nostro mouse o un semplice comando vocale, ma tutto ciò può appagare il nostro animo? La freddezza delle macchine, delle nostre manie a-personali e s-personalizzanti, può davvero fornire il calore che l’uomo necessita per poter sopravvivere? Oppure questa grande illusione non fa che introiettare la nostra esistenza in un circuito chiuso dal quale non esiste via di uscita?

Lei

La voce è un esempio straordinariamente calzante di questo progresso fuori controllo che ogni giorno sostituisce sempre l’uomo nella vita dell’uomo stesso.

La voce è vibrazione. Una persona parla e, aldilà del messaggio contenuto nella comunicazione, il ricevente viene investito da tutte quelle componenti paratestuali che comprendono anche la vibrazione fonatoria. Ebbene, questa vibrazione non è altro che l’energia che un uomo propaga verso un altro uomo. L’asettica voce di un computer, per quanto mirabilmente concepita a immagine e somiglianza di quella umana, può arrivare a tanto?

L’inganno è perfetto e l’uomo, pervaso da debolezze e insicurezze, non attende altro che lasciarsi cullare da ciò che pare perfetto. L’inganno è dunque il rifugio migliore per accrescere l’autostima, per colmare tutte quelle imperfezioni che sono proprie dell’essere umano e che generano così tanti dissapori tra individui che entrano in contatto.

Ma l’amore può essere ricreato da un software?

Il dato è certo: in una società sempre più improntata all’apparire si moltiplicano i complessi d’inferiorità. Ci si vergona di non essere, di non avere a sufficienza. E si patisce nel non poterlo confessare, come se fosse un peccato mortale essere in difetto in una società che prolifica sugli inutili difetti degli individui che la compongono.

L’uomo non vuole che essere ascoltato.

Così come un foglio bianco ascolta i nostri sfoghi, il sistema operativo al centro delle vicende del film ascolta gli sfoghi del protagonista e inoltre fornisce tutte le risposte di cui il protagonista ha bisogno. È come avere una coscienza esterna che oltre a indicarci la strada più opportuna da percorrere, ci motiva persino nel farlo.

A tutto ciò bisogna aggiungere la componente emotiva, sentimentale.

Lei

Il partner ideale, quello che non può esistere in quanto l’uomo è imperfetto per definizione, può essere ricreato da un software evoluto che non solo si pone come super-potente ma che addirittura ci studia e si modella esattamente sulla base di ciò che noi siamo e di ciò di cui abbiamo bisogno.

L’uomo non ha dunque più bisogno dell’uomo.

Niente più contatto umano, niente più procreazione, niente di niente: la fine dell’essere umano.

A tutto ciò, che si sviluppa nella prima parte del film, si va a sommare una seconda parte del film nettamente inferiore, meno espressiva, meno coinvolgente, meno ragionata. Insomma, se nella prima metà all’incirca abbiamo una riflessione sull’uomo e sulla società nella quale egli vive, nella seconda il film scade nella banalità di una classica storia d’amore come potrebbe esistere tra due esseri umani. Viene a mancare la distinzione tra uomo e macchina e viene a mancare dunque l’elemento interessante dell’opera. Il ritmo cala, la splendida sceneggiatura messa in atto sino ad allora si cosparge di luoghi comuni, di frasi fatte, sino a un finale ignavo, che riflette l’anima di un regista incapace di affondare il colpo in un senso o nell’altro.

La tecnica registica non è eccelsa, come non lo è mai stata con il regista Spike Jonze, molto più a suo agio nei videoclip musicali che nei lungometraggi, eppure qualcosa di buono traspare più e più volte con una veemenza che contrasta davvero tra momenti visivamente eccitanti ed altri fastidiosamente incompleti. La fotografia, per esempio, è espressionistica al punto giusto, ben dosata nei colori e nelle prospettive, ma il montaggio! Con che logica è stato eseguito? Non di certo quella di un’indagine psicologica. Indagine psicologica che invece è perfettamente resa da una macchina da presa quasi sempre incollata al viso dell’attore protagonista. Non c’è la staticità dei primi piani di Bergman, tanto per citare un regista che sapeva come si costruivano, bensì c’è l’efficacia del restituire l’idea di una webcam, che sia di un computer o che sia di uno smartphone, che, di fatto, non dista dal viso più di una trentina di centimetri.

Lei

L’intreccio sentimentale scade davvero nel banale dopo la prima ora di film, ma non si perde una certa qualità sensoriale che si presenta e latita a seconda del momento inscenato. Molto spesso, infatti, il protagonista indossa un auricolare per comunicare con la sua amante virtuale. Ebbene, in questi casi, i casi nei quali il protagonista parla con lei, ovvero con sé stesso, i rumori ambientali sono praticamente azzerati, come se l’essere umano in causa fosse ovattato, chiuso in una bolla di sapone costruita dalla sua mente che crea uno spazio vitale dal quale egli non sente la necessità di dover uscire. In altri momenti, invece, laddove lui cerca di estrapolare lei dal suo essere inconsistente e virtuale, ecco che colori e suoni prendono il sopravvento e una certa fascinazione emerge dallo schermo.

Merito straordinario per la parziale riuscita del film va dato a Joaquin Phoenix, quell’attore eccentrico e poliedrico già visto molte volte in passato e che qui appare meravigliosamente imbambolato nel suo essere debole, nel suo essere vittima dell’insoddisfazione propria di un capitalismo che continua a prolificare ma non è più in grado di soddisfare. Perfetto Phoenix, pacato, sensibile, in altre parole: estremamente naturale. Decisamente meno riuscito è il personaggio interpretato da Amy Adams, la migliore amica del protagonista. Lei che altrove sapeva calarsi bene nel ruolo affidatole, qua sembra fuori luogo, una via di mezzo tra la miglior Nicole Kidman e la peggior Naomi Watts, ma questo probabilmente passa attraverso il trucco e i costumi.

Di nuovo, la figura di Joaquin Phoenix è strepitosamente delineata, con quelle sue mise un po’ retrò, quei pantaloni a vita alta, quelle camice con le maniche ripiegate sin sopra i gomiti e quegli occhiali tondi così stilosi. E poi i capelli un po’ scompigliati e il baffo ben definito. Insomma: questo Phoenix non è paragonabile ad altri visti in precedenza. La Adams invece è opposta. Trasandata, sciatta, ma ancor peggio: stereotipata. Il suo visino fine e delicato patisce il trucco assegnatole cosìcché le sue possibilità d’incidere nello spettatore sono ben poche.

Ruolo a parte è dedicato alla voce, la Scarlett Johansson pluripremiata e unanimemente apprezzata da critica e pubblico. La sua voce è sensuale, roca, profonda. Coinvolgente. Ma nella versione italiana è ovviamente doppiata, e l’ingrato compito è ricaduto su una Micaela Ramazzotti non disprezzabile ma nemmeno così stimolante come avrebbe dovuto essere. Le battute le recita, a tratti sa gestirle anche bene, ma non riusciamo mai ad amarla davvero, anzi.

Lei

Lei è un film dalla doppia anima: quella filosofico-esistenzialista della prima metà, coinvolgente e per certi versi realisticamente affascinante, e quella meramente sentimentale, che scade negli stilemi classici del film d’amore senza alcuna pretesa di apportare qualcosa di nuovo. Viene davvero da chiedersi se la profondità di analisi manchi al regista o se semplicemente a mancare sia il coraggio dei produttori del film nel finanziare un’opera valida ma non adatta a un pubblico così ampio e diversificato [si pensi a un finale con doppio suicidio: lo spettatore medio uscirebbe dalla sala indignato per essersi trovato di fronte a quello che, di fatto, è uno degli aspetti societari più scomodi, seppur imperanti, degli ultimi decenni].

7,5

Danilo Cardone

One Comment leave one →
  1. 6 giugno 2014 10:21

    Ho apprezzato la pellicola con un anno di ritardo e in lingua originale.
    Non mi ha deluso, anzi, me lo avevano dipinto molto simile a ciò che ho trovato, in alcuni punti surreale e a piccoli tratti imbarazzante.

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